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La Puglia oltre la Taranta e il mare bello

 


«Non c’è solo la Puglia della notte della Taranta e del mare bello ma anche quella fatta di sfruttamento nelle campagne, inquinamento, disoccupazione e altro. Nasconderne il lato oscuro non consente di fare passi avanti». Ne è convinta Mariangela Barbanente, regista e sceneggiatrice, ora sotto i riflettori per il docufilm di successo «Varichina», nelle sale dal 2 febbraio scorso. Oggi vive a Roma. È andata via dal suo paese, Mola di Bari, nell’89. «Ma il mio legame con la Puglia è rimasto forte – dice - Qui, sin da tempi non sospetti, quando non esisteva ancora il sostegno dell’Apulia film commission (Afc), ho girato tutti i miei documentari, meno uno».

Nella sua filmografia da regista il suo primo e unico amore è il genere documentario.
«Mi permette di raccontare la realtà in modo immediato. La fiction, per quanto bella, non ti dà il privilegio di interagire con persone vere e di seguire gli eventi nel loro scorrere. Il docu non necessita della mediazione della scrittura, né di mesi o anni di gestazione. Puoi decidere di girarlo subito, appena scopri la storia da raccontare. E man mano che vai avanti hai più possibilità di liberarti da preconcetti e di scegliere stile ed estetica da dare al film».

In che modo la storia vera di Varichina racconta la Puglia?

«Il protagonista, Lorenzo De Santis, detto Varichina, entra a pieno titolo nella storia pugliese. Inconsciamente, è stato un eroe. Ha difeso il diritto di essere se stessi, esprimendo per primo la propria omosessualità nella società chiusa del capoluogo pugliese agli inizi degli anni 80 (figuriamoci in provincia). Soprattutto questo ha affascinato me e Antonio Palumbo, coregista, cui va il merito dell’idea del film, ispirato da un articolo del giornalista Alberto Selvaggi».

Soddisfatti delle risposte di pubblico e critica?

«Certo. Non ci aspettavamo tanto interesse a Bari e Roma, dove è in sala da quattro settimane. Ora c’è interesse anche in altre città. Lo abbiamo portato in vari festival, tra cui il Biografilm di Bologna e tre di cultura Lgbt, a Firenze, Lecce e Cluj (Romania). E ci aspetta Miami».

Certe tare in Puglia sembrano insormontabili. Il suo primo docu, «Sole», è del 2000 ma racconta una piaga ancora di attualità.

«Appresi del caporalato dal giornale. Mi sorpresi anch’io, da pugliese, di non saperne nulla. Fu la molla per fare ricerche e poi il docu. Dopo una breve parentesi, tornai in Puglia per girare Ferrhotel, sull’occupazione di ragazzi somali richiedenti asilo nella struttura vicino alla stazione centrale di Bari. Per un anno ne raccontai la vita quotidiana. Girai entrambi i corti senza troupe, solo con una camera digitale, a discapito della qualità dell'immagine. Ma i docu di osservazione, in cui seguo a lungo i protagonisti, mi piace farli così».

Quanto deve a Cecilia Mangini?

«È la prima donna regista italiana, la prima a raccontare la Puglia, nel 1960. Da lei ho imparato molto. Soprattutto mi ha insegnato a non fermarmi per pudore: nel docu hai a che fare con persone non con attori, ma ciò non deve impedirti di chiedere per timore di offendere. Sono affezionata al mio quarto film, «In viaggio con Cecilia», del 2013, che ho girato con lei. L’ha riportata dietro la macchina da presa dopo 39 anni e mi ha permesso di conoscerla meglio. Volevo mettermi al suo servizio e che mi raccontasse la sua Puglia. Di padre pugliese e madre toscana, lasciò la regione a 6 anni ma conservò con essa un rapporto molto stretto. In questo on the road voleva capire cosa ci avesse lasciato l’industrializzazione in cui la sua generazione aveva creduto molto: l’impressione consegnata dal film è che abbia consentito alla Puglia di fare passi avanti ma spesso non si sia legata alle peculiarità del territorio e, quando se n’è andata, ha lasciato solo inquinamento e arretratezza».

L’ultimo nato è «Come again mr Babylon»

«È un docu su una band barese nota in tutta Italia, che negli anni 80 si innamora del raggae e diventa un riferimento per la cultura alternativa. Sullo sfondo Bari, che si svegliava dal torpore e si proiettava nella modernità. Per vivacità culturale, questa città oggi (ma soprattutto negli anni 80 e 90) è all’altezza di altre italiane ed europee. Il Salento non è da meno. Ma altri pezzi di Puglia restano sofferenti.

E la Puglia? È stata raccontata abbastanza?

«Può dare ancora molto. Ma vorrei non la si vedesse come un salvadanaio da rompere perché offre risorse per fare cinema. Un “difetto” di Afc è che lavora così bene, con strutture e finanziamenti, che la Puglia fa da sfondo anche a storie che sarebbero da girare altrove. L’ambientazione non è casuale. Il luogo è un protagonista della storia, come gli attori».

Giuseppe Daponte
Speciale Eventi, Corriere del Mezzogiorno
1 marzo 2017

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