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Enogastronomia del Salento: le Ricette della Tradizione Salentina

Infografica nelsalento.com
Guida Enogastronomica Salento di NelSalento.com è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.

Introduzione

Il Salento è una penisola ricca non soltanto di bellezze naturali, di splendidi mari e di cultura, ma anche di una lunga tradizione culinaria che si è tramandata nei secoli di generazione in generazione, conservando nel tempo molti squisiti piatti tipici che rendono questa terra ancora più distintiva.
Con questa guida ci proponiamo di offrirvi una panoramica completa su tutti i più importanti piatti tipici salentini, così che possiate conoscere molto più a fondo le specialità culinarie del territorio, ordinarle con disinvoltura nei posti giusti e rendervi parte integrante dell’arte del cucinare propria del Salento.

Un po’ come diventare salentini voi stessi, perché, si sa, la cucina è sempre un elemento portante di identificazione territoriale.
Buon appetito!
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Orecchiette e minchiareddi

Orecchiette e minchiareddhi
Foto CC-BY-SA di Agamennone_75 da Flickr
Il piatto di “orecchiette e minchiareddi” o “orecchiette e minchiareddhi” è senz’altro tra i più conosciuti e rinomati, unendo al contempo la tradizione salentina con quella più tipicamente italiana della pasta fatta in casa.
Si tratta infatti di un buon piatto di pasta fresca che mette insieme orecchiette e maccheroncini (i minchiareddi) fatti in casa.
La storia delle orecchiette è avvolta nella nebbia, ma esistono al riguardo più scuole di pensiero distinte. Per alcuni, si tratta di una derivazione di una simile pasta preparata già ai tempi dei Romani, egualmente fatta da elementi a disco con centro concavo che si mangiava con acqua e formaggio. Per altri sarebbe invece derivata dalle orecchiette provenzali, realizzate dal popolo fin dal Medioevo. Infine, altri studiosi vogliono questo piatto derivare dagli ebrei ed è questo un elemento che spiegherebbe perché è così radicato in particolare su suolo pugliese. Infatti, durante il periodo normanno nei secoli XII e XIII erano presenti ebrei su suolo barese che preparavano un dolce detto “Orecchie di Haman”. I locali avrebbero “copiato” l’idea realizzando la stessa forma sulla pasta. Da quel momento si sarebbe diffuso su tutta la Puglia tanto che già durante il Cinquecento questo era considerato un piatto tipico, secondo quanto indicato da alcuni scrittori dell’epoca.
Si tratta quindi di uno dei piatti di più antica tradizione pugliese e la variante con l’aggiunta dei michiareddi è ancor più tipicamente salentina. Se passate per il Salento, conoscere questo piatto è quasi d’obbligo! Si può gustare nei modi più diversi: al sugo, al pesto, con la ricotta ed altre varianti ancora, ma il piatto tipico vuole che orecchiette e minchiareddi siano conditi con sugo fresco di pomodoro e formaggio ricotta grattugiato.
Altra particolarità è che questa pasta non si prepara solo con la normale farina di grano duro, ma assieme ad un’altra farina, la “farina di grosso” preparata dal germe di grano, che conferisce alla pasta un aspetto più scuro e un gusto più ricco.
Se volete cimentarvi, ecco la ricetta e la preparazione per 4 persone:

  • Farina di grano duro 250 g
  • Farina di germe di grano 150 g
  • Acqua
  • Sugo fresco di pomodoro
  • Formaggio ricotta grattugiato
  • Basilico
Mescolate le farine e aggiungete man mano un po’ d’acqua. Cominciate con 50ml e poi aggiungetene mentre impastate le farine. Dovete fare attenzione a dare la giusta umidità all’impasto: troppa acqua lo renderebbe impossibile da lavorare, troppa poca non vi consentirebbe di lavorarci. La farina di germe di grano poi è ancor più difficile da impastare, per cui se siete alle primissime armi potete eventualmente sostituirla con farina integrale. Quando l’impasto diventa morbido ma non appiccicoso, continuate a impastare per una decina di minuti finché non diventa omogeneo e realizzate una grossa palla liscia. Dotatevi quindi di un ferro da cucina e di un coltello a punta tonda. Dividete l’impasto in due. Con la prima parte preparate le orecchiette. Formate dei piccoli salsicciotti grossi come un dito e tagliateli di forma quadrata. Prendeteli uno ad uno e mettete la punta del coltello da un lato tagliato, cominciando a premere verso il centro scorrendo il coltello fino all’altro lato. Rivoltateli quindi dall’altro lato con il pollice ed otterrete le orecchiette.
Per i minchiareddi, ossia i maccheroncini, si deve invece usare il ferro per la pasta. Formate dei salsicciotti più allungati e spessi poco più di una penna, sfregando sull’impasto fino ad allungarlo man mano.
Dividete i salsicciotti considerando la lunghezza di una pennetta. Prendeteli uno ad uno e schiacciateli sotto al ferro, premendo con il palmo della mano e facendoli rotolare sul tavolo in modo che la pasta si arrotoli e si allunghi attorno al ferro, quindi sfilateli ed eccoli pronti.
Non vi scoraggiate se la prima volta farete anche molta fatica, con il tempo e la pratica imparerete a lavorare questa pasta alla giusta umidità. Una volta pronti, mischiateli e lasciateli essiccare per almeno qualche ora. Cucinateli quindi per pochi minuti in acqua salata.

Sul piatto, aggiungeteci il sugo fresco e passate un’abbondante spolverata di formaggio grattugiato. Se preferite, aggiungete anche alcune foglie di basilico. I piatti di orecchiette e minchiareddi li potete trovare in quasi tutte le trattorie salentine, preparati al sugo o anche in altre varianti.

Ciceri e Tria (o “Ciciri e Tria”)

Ciciri e tria
Foto CC-BY di fugzu da Flickr
Anche questa pietanza rientra nell’élite del meglio della cucina salentina. Chiunque voglia parlare di Salento, non può non conoscere “Ciceri e tria” (o “Ciciri e tria” a seconda dell’area dialettale).
No, non stiamo parlando del duo comico che fino a pochi anni fa spopolava su Zelig, ma proprio del piatto tipico salentino, uno tra i più antichi di sempre.

Si tratta di un piatto con ceci (ciceri) e pasta (tria), non una pasta qualunque ma una sorta di tagliatella di acqua e farina, senza uova. La sua storia come detto è molto antica e comincia fin dall’era classica, sponda araba.
Nasce probabilmente per un’usanza derivata dall’equinozio di primavera, quando gli arabi usavano cucinare i legumi più vecchi per accogliere in seguito i nuovi. Il nome “tria” è accertato derivare da “itrya”, che vuol dire in arabo “pasta fritta”.
Il piatto si diffuse dapprima con frittura di cereali, perché in questo modo potevano conservarsi per lunghi periodi e sfamare i beduini nel deserto.
Poi si sostituirono i ceci, tanto che anche oggi è noto nella penisola araba un piatto chiamato hummus, che è un purè di ceci con pasta fritta simile agli spaghetti.

In seguito, attorno al XI, XII secolo, si diffuse in terra siciliana per poi espandersi al Salento, dove con le opportune variazioni è diventato uno dei pezzi forti della gastronomia. È anche considerato il “piatto dei poveri” per eccellenza della tradizione salentina, questo perché un tempo ogni anno, in occasione della festa di San Giuseppe, venivano allestite lunghe tavolate che offrivano Ciceri e Tria a chi non aveva di che sfamarsi.
Fino ad epoche recenti, le salentine cucinavano i ceci in pignate (vecchie pentole di creta) direttamente alla fiamma lenta del camino, realizzando anche le fettuccine di tagliatelle totalmente in casa.
Ma ecco come potete procedere alla preparazione:
La tagliatella si prepara realizzando un impasto fatto di due terzi di farina di tipo OO e un terzo di farina di grano duro, aggiungendo acqua all’impasto per poi distenderlo in una sfoglia sottile e tagliarla in fettucce larghe fino a due cm. Gli scarti della sfoglia vengono tagliati a pezzetti e fritti in olio d’oliva, per aggiungere un elemento croccante nel piatto.

Anche i ceci prevedono un iter di preparazione particolare: è indispensabile tenerli dapprima a bagno in acqua salata per minimo dodici ore.
Soltanto dopo possono essere cucinati assieme a cipolla, sedano e carote. Il consiglio per i ceci è metterli a bagno fin dalla sera prima in acqua fredda con mezzo cucchiaio di sale. La mattina dopo, scolateli, lavateli e potrete quindi cominciare a cucinarli a fuoco lento, sempre in acqua fredda e ricoprendoli facendo in modo che restino sommersi per almeno un paio di cm.
La cottura dura due ore abbondanti, e aggiungete il sale e gli altri condimenti dopo tre quarti d’ora.
Aggiungiamo sempre acqua che copra interamente i ceci. Al piatto finale si accompagna molto bene un vino rosso salentino.

Oggi potete trovare questa semplice ma gustosa pietanza in ristoranti tipici nel centro di Lecce o proposto in diversi agriturismi sparsi sul territorio. Per di più, a Salice Salentino si tiene ogni luglio la “Sagra Ciciri e Tria” e ad Ugento ogni agosto la “Sagra te li Ciceri e tria”, dedicate proprio a questo piatto tradizionale.

Le Frise

la frisa salentina
© Alessio Cola – Fotolia.com
Un piatto molto in voga nelle estati salentine è quello delle frise con olio, pomodoro, origano e sale. Le frise possono essere sia piccole (“friselline”) che grandi quanto il palmo di una mano.
SI tratta di una specie di ciambelle senza buco fatte con farine di diverso tipo. Possono essere fatte con farina di grano d’orzo con una piccola percentuale di farina di grano, se si tratta delle friselle d’orzo, oppure con farina di grano per le friselle classiche, o ancora con farina di frumento per le friselline.
Vengono quindi cotte e biscottate e la loro consistenza molto dura le rende perfette per essere conservate anche per molti mesi. La preparazione delle frise in sé è piuttosto complessa e vanno cotte in forni a legna, quindi la soluzione ideale è comprarle.
Si possono trovare in sacchetti, già preparate e secche, in tanti negozi di enogastronomia tipica salentina sparsi nei maggiori centri turistici del Salento.

La storia delle frise deriva dai greci. I greci che giunsero nel Salento usavano prepararle per utilizzarle come biscotti.
La diffusione vera e propria sul territorio si è avuta però solo in epoca relativamente recente quando, circa un secolo fa, con la fine dei latifondi e lo sfruttamento intensivo del terreno si cominciarono a diffondere nelle campagne delle costruzioni a secco dove i contadini spesso restavano per la notte durante l’estate, senza far ritorno a casa.
Le frise furono quindi riscoperte proprio per la capacità di conservarsi per mesi ed erano uno dei cibi prediletti dai contadini nei mesi estivi trascorsi lontano da casa.

La preparazione del piatto è davvero semplice. Vi basta prendere le frise e bagnarle in una ciotola d’acqua.
Fate solo attenzione a non lasciarle troppo tempo in acqua, è sufficiente che si bagnino per poche decine di secondi, altrimenti si rischia che perdano la loro consistenza e si spappolino facilmente. Toglietele quindi dalla ciotola e mettetele sul piatto, conditele quindi a piacimento con olio extravergine d’oliva, pomodorini freschi tagliati, sale e origano.
Se volete, potete sbizzarrirvi con altri condimenti ed arricchirle ad esempio con capperi, rucola, peperoni, finocchietti, peperoncini. Le frise così arricchite sono anche conosciute come “friseddhre ncapunate”.

Il risultato è un piatto veloce, fresco e dal sapore davvero squisito. Potete prepararle sia come piatto per la cena, sia come antipasti per il pranzo e saranno sempre in grado di allietare lo spirito…e lo stomaco!

Fave nette con Cicorie selvatiche

Foto da Vizionario.it
Foto da Vizionario.it
Le fave nette con cicorie selvatiche sono un piatto caratteristico per tradizione appartenente ai contadini salentini. Sono anche conosciute come cicureddhre cu le fave nette, oppure cicorie selvatiche con purea di fave.
Se trovate in una trattoria o in un ristorante queste differenti diciture, ci si riferisce sempre allo stesso piatto.

L’usanza prevedeva un tempo di mangiarle tipicamente di lunedì, dal momento che il giorno prima le famiglie passeggiavano per le campagne e raccoglievano le cosiddette “cicureddhre”, ossia delle particolari verdure selvatiche che spesso ancora oggi crescono nelle campagne del posto.
Come le frise, anche questo era un piatto “dei poveri” perché fatto con ingredienti che si raccoglievano facilmente nei campi. Nonostante ciò, fornisce un apporto nutritivo completo grazie alla fusione di più elementi quali appunto fave, cicorie e pane, dando al contempo un ottimo gusto che ha fatto rivalutare questo piatto, facendolo entrare di diritto tra le prelibatezze salentine.

Per preparare questa pietanza per 4 persone, occorrono 400 grammi di fave bianche secche e sbucciate, 1kg di cicorie selvatiche, sale, olio extravergine d’oliva.
La sera prima del giorno in cui vorrete mangiarlo, mettete in ammollo le fave secche. Il giorno successivo, sciacquatele e mettetele in una pentola, meglio se in una “pignata”, ossia una particolare pentola di terracotta.
Aggiungete acqua fino a coprire il tutto di due dita e cominciate a cucinare a fiamma bassissima. Aggiungete un po’ di sale e abbiate cura di mantenere il giusto quantitativo d’acqua aggiungendone man mano, ma versate acqua già calda.
Togliete la schiuma bianca che vedrete formarsi man mano in superficie fino ad eliminarla tutta. Dopo circa un’ora e mezza, le fave si saranno ammorbidite (oltre mezz’ora da quando hanno iniziato a bollire) e potrete quindi toglierle dal fuoco e frullarle nella pentola con un frullino ad immersione, formando così la purea di fave.

Nel contempo, pulite e lavate le cicorie selvatiche, poi lessatele in acqua salata e scolatele dopo due o tre minuti quando sono ancora piuttosto dure. Fate quindi saltare le cicorie per circa mezz’ora (aggiungendo un paio di bicchieri d’acqua) fino a completa cottura in un tegame con olio d’oliva, in cui avrete precedentemente soffritto e quindi tolto uno spicchio d’aglio e una cipolla tagliata a spicchi (se preferite potete anche lasciarli).
Scaldate un po’ il purè di fave se nel frattempo si è raffreddato, aggiungendo olio d’oliva e mescolando.
A questo punto servite le due cose insieme in un unico piatto, con il purè da una parte e le cicorie dall’altro, irrorando in superficie con olio d’oliva. Il piatto si presta poi ad essere servito assieme a pane caldo o crostini di pane e vini rossi locali.

Anche per i crostini di pane possono essere utili dei consigli. Potete prepararli tagliando fette di pane in piccoli pezzi e friggendoli quindi in un padella con olio d’oliva, una volta dorati asciugateli con carta assorbente e serviteli. In alternativa, arrostite le fette di pane alla piastra e poi tagliatele a pezzettini e servite così i crostini ottenuti.

Granu Stumpatu (o “ranu stumpatu”)

Il piatto “te lu granu stumpatu” è un piatto tipico del basso Salento, in particolare dell’area della Grecìa Salentina. Letteralmente significa “grano pestato”.
Granu Stumpatu
Foto CC-BY di Fernando Valenzuela da Flickr
L’origine di questo piatto è molto antica e poco chiara. L’usanza di cucinare direttamente il grano senza prima trasformarlo in farina, pasta o pane risale a tempi antichi sia nell’Antica Grecia che con i Romani, quando questo alimento sostituì nelle preferenze il farro.
Il grano del territorio salentino era coltivato quasi tutto a grano duro e anche in questo caso l’origine del piatto di “grano pestato” è antica e incerta. In ogni caso, si è riscoperto all’epoca della Seconda Guerra Mondiale, quando i contadini non potevano andare ai mulini.
Così, riutilizzarono antichi mortai di pietra, pestando i chicchi di grano anche più volte e passandoli al setaccio di farina d’orzo, che aveva maglie meno fitte di quelli per la farina di grano, fino ad ottenere farina comunque abbastanza sottile per fare la pasta.

La pietanza del “granu stumpatu” si è quindi recuperata e rivalutata negli ultimi tempi. Ecco qui di seguito una ricetta adatta per 4, 5 o 6 persone. Si ha bisogno di mezzo chilo di grano “stumpatu”, mezzo litro di passata di pomodoro, basilico, pecorino grattugiato, olio d’oliva, cipolla, sale.
Preparato l’occorrente, bisogna versare in una pentola di terracotta una tazzina d’olio e cipolle affettate. Quando la cipolla si restringe, si aggiungono la passata di pomodoro e il basilico. Cuocete il tutto per un quarto d’ora a fiamma bassa.
Per preparare “lu granu stumpatu”, bisogna invece mettere i chicchi di grano (già senza pula) in acqua per almeno dieci ore, quindi toglietelo, asciugatelo e versatelo in un mortaio di pietra dove lo pesterete con un apposito pestello in legno. Lavate nuovamente il grano pestato ottenuto, riasciugatelo e continuate a pestarlo, fino a quando non diventa sufficientemente morbido per essere cucinato. A questo punto versatelo in una pentola d’acqua, aggiungete il sale e tenetelo a fiamma bassa per circa un’ora.
A questo punto unite al grano stumpatu un mestolo della salsa ottenuta e rimescolate. Sul piatto, aggiungete ancora un po’ di salsa, e infine pecorino grattugiato a piacere. Se non avete voglia di cimentarvi, potete invece trovare piatti di granu stumpatu nelle trattorie del basso Salento e dell’area grika.
Nel mese di agosto a Poggiardo si tiene anche ogni anno la “sagra de lu granu stumpatu”.

Tajeddha

tajeddha
Foto CC-BY di Paoletta S. da Wikipedia
La tajeddha, come si può riuscire ad intuire dal nome, è un piatto che deve le sue origini alla “paella” spagnola e non a caso si è diffuso nel Salento proprio in seguito alla dominazione degli Spagnoli e che prima ancora era stata portata in Spagna dagli Arabi. Gli ingredienti possono essere tra i più variabili, ma quelli imprescindibili sono cozze e patate.
Così come “paella” significa padella e viene servita appunto in padella, allo stesso modo “tajeddha” significa tegame e il piatto viene servito direttamente in tegame. Si tratta in sostanza di un timballo con cozze e patate, cui possiamo aggiungere altri ingredienti a piacere. Vi indichiamo in questo caso come realizzare una versione di Tajeddha con cozze, patate e zucchine per 6-8 persone. Altre varianti prevedono ad esempio l’aggiunta di riso oppure di grano pestato.
Per questa versione, abbiamo bisogno di 1 kg di patate, 1kg e mezzo di cozze, mezzo chilo di zucchine piccole, 3 scalogni o cipolle, una manciata di pomodorini, come condimento pecorino, mollica di pane, aglio, peperoncino, sale, prezzemolo.
Sbucciate le patate e tagliatele in fettine sottili, mettetele quindi in un tegame di terracotta assieme alle zucchine tagliate a rondelli. Aggiungete nel tegame rondelle di scalogni e i pomodorini tagliati in quattro. Pulite le cozze e fatele aprire rosolandole al fuoco in una pentola assieme a prezzemolo, aglio, olio d’oliva e un litro d’acqua non scaldata. Quando si aprono, toglierle dal liquido e farle freddare. A questo punto, filtrate il liquido rimasto nel tegame con le patate e le zucchine e aggiungete sale a piacere per dare più sapore.
A questo punto, prendete un altro recipiente di terracotta (appunto la tajeddha) resistente al forno, fate uno strato di patate e zucchine, uno strato di cozze a mezzo guscio, cospargetele quindi con un composto fatto per metà di pecorino e per metà di mollica di pane raffermo più due cucchiai di prezzemolo tritato, fate quindi un altro strato di patate e zucchine e un altro di cozze ripetendo il condimento finché non terminate gli ingredienti.
Versate il liquido rimasto in precedenza nella tajeddha coprendo il primo strato di patate e zucchine e fate cucinare per circa un’ora e venti in forno, già scaldato a 220 gradi.

Municeddhi

Municeddhi
Foto CC-BY-SA di Florixc da wikipedia
I municeddhi o municeddhri, chiamate anche al femminile “municeddhe”, altro non sono che delle lumache di campagna, non molto grosse, dal guscio scuro. Non quindi le classiche lumache.
Il nome deriva dal loro aspetto esteriore: il guscio, infatti, sembra richiamare esteticamente il saio dei monaci. Un’altra teoria vuole che il nome derivi invece dal femminile “monachelle”, perché quando queste lumache vanno in letargo creano sull’apertura una patina biancache assomiglia alla cuffia che un tempo portavano le suore. Secondo la tradizione, fanno molto bene per la digestione grazie all’albumina e per la credenza popolare fanno guarire anche dall’ulcera.

Questo cibo è molto popolare nel Salento, in particolar modo nella città di Cannole e l’origine di questa pietanza risale probabilmente all’epoca messapica. Potete trovare i municeddhi nel settore ortofrutticolo dei mercati cittadini, al costo di circa 15-20 euro al kg.
La ricetta per 4 persone prevede:

mezzo chilo di municeddhi (nome “tecnico” chiocchiola helix), una cipolla, uno spicchio d’aglio, alloro o altre spezie, peperoncino, 6 pomodorini, olio d’oliva, un bicchiere di vino bianco, sale.
Per preparare il piatto, versate in una grande pentola almeno tre litri d’acqua e fatela bollire. Spegnete quindi la fiamma e versate i municeddhi nell’acqua. Dopo cinque minuti, aggiungete acqua fredda e lavatele quindi sotto il rubinetto per togliere la terra e la panna all’apertura della chiocciola.
Preparate quindi in una padella olio d’oliva con cipolla tritata, aglio e pomodorini tagliati, facendo soffriggere a fuoco lento unendo peperoncino e alloro. Quando la cipolla e le foglie diventano dorate, aggiungete il vino, un po’ di sale a piacimento e i municeddhi. Cuocete a fiamma lenta finché la parte alcoolica del vino non evapora ed i municeddhi sono cotti.

A piacimento, potete aggiungere anche del basilico. In abbinamento al piatto va benissimo un pane di grano duro da forno a legna e un vino rosso del Salento. Come mangiarli? È molto semplice: aiutatevi con la forchetta o con uno stuzzicadenti ad estrarre i municeddhi dal guscio e gustateveli!
La città regina di questo piatto, come detto, è Cannole. La Festa della Municeddha è la più grande dedicata a queste lumache di tutto il Sud Italia, si tiene ogni anno dal 10 al 13 agosto, è cominciata nel 1985 e da allora non ha saltato un anno avviandosi ormai a spegnere le trenta candeline. A
ccanto alla possibilità di gustare questo piatto in tre modalità diverse (al sugo, arrostite e alla cannolese), si tengono numerosi balli, canti, concerti, e vi sono altri stand enogastronomici con altri prodotti tipici come pittule e pezzetti di cavallo. Gli abitanti locali hanno saputo sfruttare la nomea che avevano in passato di “cuzzari”, ossia di raccoglitori di cozze, altro nome con cui sono indicati i municeddhi.
Grazie a ciò, la festa ha preso rapidamente piede e il piatto è un prodotto tipico della produzione agricola locale, tanto che questo Comune si è guadagnato nel 1999 il titolo di “Città delle Lumache”.

Pezzetti di Cavallo al Sugo

Pezzetti di Cavallo al Sugo
Foto da Vizionario.it
I pezzetti di cavallo al sugo sono un piatto molto apprezzato nel Salento. Per quanto possa far storcere il naso agli animalisti, il suo consumo non è troppo lontano da quello delle altre carni più diffuse di bovino e suino.
Non bisogna credere, però, che questo piatto sia realizzato per mera crudeltà, ma è insito al contrario nella cultura degli avi locali.
Un cavallo domestico era accudito per tutta la vita come fosse un membro della famiglia. Quando diventava molto vecchio, mangiarne la carne era il modo per ricordarlo, affinché niente di lui andasse sprecato fino alla fine.
Non bisogna dimenticare, infatti, che il consumo di carne equina è nel DNA degli abitanti del posto fin dal Paleolitico, quando esisteva un animale noto come “Asino Idruntino” forse estintosi proprio per l’estenuante caccia alla sua carne.

Nelle stesse epoche esisteva anche una razza di cavallo molto più grande di quelle oggi conosciute e di cui sono conservati fossili al Museo di Maglie. Anche i Messapi, popolo pre-romano, erano considerati cavalieri provetti.
Durante il medioevo, infine, le carni equine erano cucinate in grandi calderoni quando i feudatari volevano propiziarsi i propri sudditi. Si prediligevano i calderoni perché essi cucinavano di solito la carne degli animali più vecchi, difficilmente mangiabile arrostita per via della durezza, mentre nei calderoni si riusciva ad ammorbidire.

Il pasto dei pezzetti di cavallo arrivato così come lo conosciamo oggi ne è una derivazione, essendo anch’esso cucinato in pentola (o meglio in pignata), non arrostito, ed è tipico del Salento centrale.
Per prepararlo, abbiamo bisogno di una pignata (pentola in terracotta) ideale per le cotture lente. Oggi molti l’hanno sostituita con dei normali pentoloni, ma farlo vuol dire allontanarsi da quello spirito di tradizione e di rispetto appena descritto.

La quantità di carne va scelta a piacimento, gli ingredienti per un chilo di pezzetti di cavallo sono: una cipolla, una carota, un litro e mezzo di salsa di pomodoro, sedano e alloro, un peperoncino, qualche grano di pepe nero, un bicchiere di vino rosso, sale e dolio extravergine d’oliva.
Nella pignata preparate il soffritto con cipolla, carota e sedano e una volta dorate aggiungete i pezzetti di cavallo lasciandoli rosolare e mescolando più volte. Aggiungete il bicchiere di vino rosso e continuate a cucinare fino all’evaporazione dell’alcool. A questo punto aggiungete la salsa di pomodoro ricoprendo i pezzetti e chiudendo la pignata con un coperchio. Lasciate quindi bollire a fuoco lento per circa un’ora, a questo punto aggiungete peperoncino e alloro. Fate passare così altre due ore e aggiungete un tocco di sale e di pepe. Fatto questo, i pezzetti da cavallo saranno pronti per essere gustati!
Se invece usate una pentola a pressione, i tempi di cottura complessivi sono dimezzati.
Si usa aggiungere peperoncino perché, in caso contrario, questa carne così cucinata risulta un po’ troppo dolce, mentre con questo condimento riesce ad esaltarsi. Il piatto si presta benissimo in abbinamento con un vino rosso massiccio locale e con le pucce, pani di grano duro. Potrete trovare i pezzetti direttamente nelle macellerie locali.

La Puccia Salentina

Puccia
Foto CC-BY-SA di Florixc da wikipedia
La puccia può essere considerato il pane tipico di tutta l’area salentina. È costituita da un pane di grano duro che può essere cotto da solo o assieme ad altri ingredienti. Tipica è ad esempio la puccia della Vigilia dell’Immacolata, farcita direttamente nell’impasto con le olive nere.
Le sue origini la vedono essere la pietanza dei prigionieri, essendo realizzata con grano duro, semplice ma allo stesso tempo calorica. Si consumava anche alla vigilia dell’Immacolata in sostituzione dei pasti, come simbolo di digiuno.
Una reinterpretazione popolare del vangelo ha infatti creato una storia completamente inventata che ha radicato nella puccia, come pane simbolo del Cristo, l’importanza dell’ulivo. Per la tradizione, quando Giuseppe, Maria e il Bambino scappavano da Erode e si trovarono braccati dai suoi soldati, Giuseppe disse a un albero di ulivo di aprirsi per nascondere Maria e il Bambin Gesù (da cui il detto “Aprite ulìa e scundi Maria”): l’albero obbedì e i soldati di Erode passarono oltre.
La puccia assomiglia a un grosso panino di dimensioni rotonde, facilmente trasportabile e utilizzato spesso anche dai contadini nelle dure giornate in campagna.
Cibo dei prigionieri, cibo dei poveri e dei contadini…ma buonissima! Gli ingredienti erano facilmente reperibili: farina, acqua e sale, il risultato era (ed è) un pane degno di un re. È stata così giustamente rivalutata ed oggi occupa un piedistallo tra i migliori cibi salentini. Anzi, la sua diffusione è diventata talmente grande che non sono rare, nel Salento e nella stessa città di Lecce, delle vere e proprie “puccerie” specializzatesi nel far gustare ai turisti le pucce ( i pani però senza olive), aperte e condite in tutti i modi.
Diverse sono anche le sagre dedicate alla puccia, tra cui forse la più conosciuta è quella realizzata a Cocumola per la Madonna dell’Uragano, quando nel 1832 protesse il pane da un uragano che imperversò nell’area. Una variante della puccia con le olive è la “puccia gallipolina”, preparata sempre per la Vigilia dell’Immacolata e che vuole al posto delle olive altri ingredienti quali tonno, capperi, pomodori, acciughe.
E se volete cimentarvi nella realizzazione della puccia con le olive, ecco tutto quello che serve:
  • 1 chilo di farina (metà a grano duro e metà di tipo 00)
  • 1 cubetto di lievito, 800ml d’acqua, 1 cucchiaio di sale
  • 300 grammi di olive nere (meglio nella varietà piccola delle Celline di Nardò).
Stendete la farina con il lievito e mischiatela con 500 ml d’acqua come nella preparazione della pizza, lasciando il sale alla fine. Formate così un panetto, mettetelo in un contenitore e aggiungete l’altra acqua tiepida fino ad avere un impasto appiccicoso. A questo punto aggiungete nell’impasto un quantitativo di olive nere a piacere (la ricetta tradizionale dice che le olive non devono essere snocciolate, ma potete snocciolarle se lo preferite). Coprite il contenitore con un coperchio, e il contenitore stesso con una coperta, in modo da tenere l’impasto al caldo, e lasciate che lieviti per circa tre ore.
In seguito, prendete l’impasto e formate più pagnotte da rigirare nella farina, quindi posatele su una teglia infarinata e infornatele a 250 °C in un forno già riscaldato. Potrete estrarle dopo circa tre quarti d’ora quando saranno dorate e le pucce saranno così pronte.

Il Rustico

Rustico
Foto da Vizionario.it
Il rustico è un tipico prodotto di rosticceria del Salento e in particolare di Lecce, è infatti anche noto come “rustico leccese” e vista la sua lunga tradizione fa parte dei prodotti agroalimentari tradizionali nell’elenco stilato dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali.
Dalla forma rotonda per un diametro variabile tra dieci e quindici centimetri, è fatto di pasta sfoglia cotta al forno ripiena di besciamella, mozzarella e pomodori. Si possono gustare in qualunque momento della giornata, anche se i leccesi tendono a prediligerlo come spuntino serale veloce, quando non si ha tempo o voglia di cenare a casa né di sedere in un pub o in un ristorante. Il rustico, infatti, viene servito caldo direttamente in mano e si trova con facilità in tutte le rosticcerie di Lecce e del Salento. Essendo comunque adatto a qualunque ora, potrete trovarlo anche nei bar. Al gusto si presenta morbido, ma sostanzioso, così un solo rustico è capace di placare la fame della serata.
La storia del rustico è avvolta nel mistero, ma difficilmente deriva dalla cucina contadina come molti altri piatti tradizionali locali. La disponibilità di besciamella e mozzarella, infatti, non era comune per i contadini di un tempo e così è più probabile che la sua origine derivi dagli ambienti aristocratici, dove qualche cuoco avrà avuto l’ingegno di inventare qualcosa di nuovo. La difficoltà nel datare la sua nascita in un periodo ben preciso è dovuta anche alla mancanza di fonti documentate, essendo una tradizione culinaria tramandatasi oralmente. La besciamella, comunque, è stata inventata dal marchese Louis de Bèchameil durante il Settecento, quindi giocoforza il rustico ha una storia relativamente recente, successiva alla seconda metà del Settecento.
Per preparare dei rustici fatti in casa per quattro persone, ecco tutto quello che vi serve:
  • 500g di pasta sfoglia
  • Besciamella, da supermercato o meglio se fatta in casa con 25 g di farina, 25 g di burro, 150ml di latte, sale e noce moscata
  • 100 g di mozzarella, 1 uovo 2 pomodori pelati, olio d’oliva, sale e pepe.
Ecco come preparare la besciamella: sciogliete il burro nella farina in una pentola e mescolate sulla fiamma finché la farina non diventa dorata. Aggiungete un po’ di latte proseguendo a mescolare bene finché non si amalgama con la farina, egualmente versate man mano il resto del latte. Quando l’amalgama è completo, cucinate per alcuni minuti, quindi spegnete la fiamma e aggiungete un pizzico di sale, di polvere di noce moscata e pezzetti di mozzarella, mescolate e lasciate freddare e la besciamella sarà pronta.
A questo punto fate piccoli pezzettini dei pomodori pelati, fateli scolare e conditeli con olio, sale e pepe. Dalla pasta sfoglia, ottenete dischi di 10-15 cm. Potete fare le quattro basi leggermente più piccole come diametro rispetto ai dischi che userete per la parte superiore. Nei quattro dischi delle basi, mettete al centro prima la besciamella e poi i pomodori lasciando abbondantemente libero il bordo che potete spennellare con uovo sbattuto. Copriteli con gli altri dischi più grandi, il ripieno così non sarà da ostacolo e combaceranno con i dischi inferiori e fateli incollare premendo con le dita. Lasciateli così in frigo per circa un’ora. Soltanto dopo, spennellateli con uovo sbattuto e infornateli a 200 °C. Saranno pronti dopo circa venti minuti.

Purpu alla Pignata

Purpu alla Pignata
Foto da Vizionario.it
“Lu purpu alla pignata” è un piatto che viene dalla tradizione dei pescatori del Salento e consiste in polpo cucinato nella pignata.
Il piatto è diffusissimo fin da tempi antichi, essendo il polpo un animale marino che frequenta da sempre le acque dello Ionio e del basso Adriatico e assieme a questa tradizione culinaria si sono diffusi numerosi detti e proverbi locali. Uno dei più famosi è senza dubbio “lu purpu se coce cu ll’acqua soa stessa”, cioè “il polpo si cucina con la sua stessa acqua”, questo perché effettivamente nel cucinare il polpo non si ha bisogno di aggiungere acqua essendone già abbondantemente dotato.
Per metafora, il detto si è esteso significando che quando una persona è sprovveduta si danneggia da sola. Un altro detto molto conosciuto è “La morte de lu purpu è alla pignata”, stando ad indicare che questo è il solo miglior modo per cucinarlo.

Per preparare lu purpu alla pignata, avrete bisogno di:
Un polpo fresco, una manciata di pomodorini “al pendolo” (cioè di quelli essiccati ai muri come nella tradizione salentina, ma in mancanza potete usare i normali pomodorini), olio d’oliva, uno spicchio d’aglio, pepe in grani, alloro, prezzemolo, peperoncino, mezzo bicchiere d’acqua.
Pulite il polpo e tagliatelo a pezzetti. In una pignata (grande pentola di terracotta da camino, in mancanza usate una normale pentola di terracotta) mettete il mezzo bicchiere d’acqua, un paio di cucchiai d’olio, assieme all’aglio, al pepe e a un paio di foglie d’alloro e fate bollire. Aggiungete il peperoncino e i pomodorini tagliati a pezzetti. Aspettate dieci minuti e aggiungete il polpo.
Non avrete bisogno di altra acqua perché, come dice il detto ricordato poc’anzi, il polpo si cucinerà rilasciando all’esterno la sua stessa acqua. Lasciate a cucinare per circa un’ora finché non si formerà un buon sughetto e la carne del polpo diventerà più tenera. Aggiungete il prezzemolo poco prima di spegnere, e lu purpu alla pignata sarà pronto! Esiste anche una variante che prevede in più la presenza di patate tagliate a spicchi, che volendo potete aggiungere assieme al polpo. Un’ultima alternativa è servire il polpo come condimento in un buon piatto di spaghetti.

Se volete gustarlo direttamente nel Salento, potrete trovarlo nei ristoranti specializzati, specialmente nelle più rinomate località balneari come GallipoliPorto Cesareo e Otranto.

Turcinieddhi

Turcinieddhi
foto copyright Ing. Gianni Carluccio dal sito www.giannicarluccio.it
I turcinieddhi o turcinieddhri è un piatto a base di carne molto diffuso nel Salento e lo si può trovare nei menù di quasi tutti i ristoranti e le trattorie tipiche. L’origine del nome significa “piccolo attorcigliamento”, richiamando il modo in cui vengono realizzati. Si tratta di involtini realizzati con frattaglie d’agnello, capretto o agnellone che vengono tenuti insieme con una rete realizzata con le budella degli animali stessi. Si condiscono con sale, pepe o prezzemolo, meno spesso anche con scaglie di formaggio piccante o di caciocavallo stagionato. Con nomi differenti, sono un piatto tipico che ricomprende l’area della Puglia, del Molise e della Basilicata e il nome italiano è turcinelli o torcinelli.
Vengono arrostiti alla brace o al forno a legna, mentre la preparazione più pesante è cuocerli al tegame con olio, pomodoro e cipolla, sempre buonissimi, ma più difficilmente digeribili. Anche se non più diffusi come una volta, esistono ancora in diversi paesi della Provincia di Lecce alcuni forni, spesso collegati direttamente alle macellerie, dove la sera si arrostiscono e si servono i turcinieddhi di una volta, dall’aspetto perfetto color dorato e dal peso di due chili. Oggi questi turcinieddhi sono molto meno diffusi e si usa invece servire i bocconcini più piccoli, molto più pratici da arrostire.
L’origine dei turcinieddhi, vista anche la larga diffusione territoriale, è di difficile definizione e nessuno può attribuirsene una paternità. Qualunque pastore delle suddette regioni, o anche più di uno contemporaneamente, potrebbero averli inventati, con differenti varianti regionali. Allo stesso modo è impossibile definire con certezza l’epoca di origine, sappiamo soltanto che si tratta di una specialità molto antica, perché riutilizza e rende squisite parti che oggi sono considerate “lo scarto” della pecora e dell’agnello, ma che in antichità si utilizzavano comunque ottenendo preparati gustosi. I turcinieddhi sono così giunti fino ai giorni nostri ed oggi sono stati giustamente rivalutati.
Per prepararli in casa, dovrete scegliere frattaglie di agnello o capretto giovane provenienti da macelleria che dovrete lavare e tagliare longitudinalmente. Aprite anche le budelline e lavatele sotto il rubinetto, poi passatele in acqua salata e infine in un recipiente con acqua e succo di limone. Fate quindi le porzioni che preferite con le frattaglie di vario genere (fegato, cuore, milza, polmone) e aromatizzatele con prezzemolo, sale e pepe nero macinato, successivamente avvolgete ogni porzione con la membrana delle budelline e legatele con porzioni d’intestino. Otterrete dei bocconcini simili agli involtini, cilindrici, dal diametro di 2 o 3 cm e dalla lunghezza di circa 10 cm. Vanno quindi cotti preferibilmente alla brace o in forno a legna. Se non ne avete a disposizione, resta la soluzione in tegame come detto poc’anzi, che li rende sempre squisiti ma poco digeribili. In ogni caso, sono un prodotto da consumo fresco subito dopo averli cucinati, possono essere conservati in frigorifero crudi, per non molto tempo, a non più di 4 gradi.

Scapece

scapeceParlando di Salento, non intendiamo la scapece generica, ossia la conservazione di pesce sott’aceto, ma la ben precisa variante della scapece gallipolina. Si tratta sempre di un piatto a base di pesce, dapprima fritto e poi fatto marinare in molliche di pane inzuppate di aceto e zafferano che dona il caratteristico colore giallo.
La tecnica di conservazione è certamente di origine araba, per poi essere stata migliorata dagli spagnoli ed infine essersi diffusa in modalità differenti in più aree del pianeta, specialmente Spagna, Italia e America Latina.
L’origine del nome può derivare o da Escha Apicii, cioè salsa di Apicio, autore del più antico libro di gastronomia, che ne aveva parlato, oppure potrebbe derivare dall’arabo As-sikbāj, una pietanza piuttosto simile alla scapece realizzata nelle aree arabe, ma a base di carne. Le testimonianze storiche parlano di questo piatto in Puglia già nel Duecento.

La scapece gallipolina invece, nacque appunto a Gallipoli nel periodo in cui era assediata da altre potenze del Mediterraneo. Per poter sfamarsi, gli abitanti si rifornivano della loro risorsa, il pesce, e tramite la scapece trovarono il modo per conservarlo per lungo tempo. È costituita da vari tipi di pesci che vengono fritti e marinati in mollica di pane con aceto e zafferano, utilizzando allo scopo delle grandi tinozze di legno conosciute come “calette”. Le potrete vedere offerte direttamente in questi contenitori nelle numerose feste patronali tra i Comuni del Salento, immancabili a Gallipoli e a Lecce.
Per preparare la scapece nella variante gallipolina tipica del Salento, si ha bisogno di questi ingredienti: pesci di piccole dimensioni a piacere, come ad esempio alici; olio, farina, aceto, zafferano e mollica di pane.
I pesci piccoli, essendo di ridotte dimensioni, non vanno puliti ma lasciati così come sono. Vengono fritti con l’olio e successivamente disposti a strati alternati assieme alla mollica di pane grattugiata, cui è stato precedentemente fatto assorbire l’aceto e lo zafferano sciolto. La grande tinozza di legno viene così riempita in più strati fino all’orlo e conservata in celle frigorifere. La scapece viene così servita fresca.

Mustazzoli

mustazzoliI mustazzoli sono un dolce tradizionale molto popolare nel Salento, ma anche in Sicilia. Da secoli si usano preparare soprattutto nel periodo delle festività natalizie. Esteticamente sono come dei grandi pasticcini realizzati con zucchero, farina, mandorle, cannella, miele e altri aromi, ricoperti con glassa al cioccolato.
L’origine di questo dolce è araba: non a caso, così come il pane arabo, nemmeno i mustazzoli vengono sottoposti a lievitazione. Il nome deriva invece dal latino mustace, che significa alloro. Sono noti anche come “Mustazzoli nnasprati”, dove il “naspro” è appunto la glassa di zucchero al cacao che li riveste. L’origine sembra essere piuttosto antica e non di rado esistono pasticceri che si tramandano la loro realizzazione da diverse generazioni.

Li potete trovare non di rado nelle pasticcerie e nei biscottifici salentini tra i dolci tipici, oltre che offerti nelle feste patronali lungo le vie vestite di luminarie, un’usanza cominciata dopo la Seconda Guerra Mondiale grazie all’intuizione di Luigi Sorgente.
Egli era un gelataio, già tra i primi ad offrire gelati su un mezzo ambulante in occasione delle feste. Durante la stagione più fredda, però, volle trovare un modo per continuare ad avere delle entrate e fu così il primo a vendere i mustazzoli in feste paesane e sagre, seguito successivamente dai suoi sei figli.

Ogni produttore ha una propria ricetta personalizzata, che ricomprende vari ingredienti per l’interno come scorze o succo di agrumi, mandorle, chiodi di garofano e simili. L’impasto viene infornato e una volta cotti vengono ricoperti con la glassa. Il risultato finale è un dolce marrone lucidato, morbido, con un gusto molto aromatizzato e piacevole al palato.
Vi proponiamo una valida ricetta per ottenere degli ottimi mustazzoli. Avete bisogno di:
un chilo di farina, 4 uova, 400g di zucchero, 1 bustina di vaniglia, 50 g di cacao, 20 g d’ammoniaca, 100 g d’olio, latte q.b., chiodi di garofano e cannella macinati, scorze e succo di un limone e un mandarino. Se volete, potete aggiungere anche mandorle tritate.
In una padella fate fumare l’olio, spegnete e versateci le scorze di limone e mandarino lasciando freddare. Disponete la farina a fontana, mettendo al centro succo di limone e mandarino e loro altre scorze grattugiate, chiodi di garofano e cannella macinati e i 50 g di cacao (oltre che le mandorle tritate se le volete) amalgamandoli insieme assieme all’olio aromatizzato poco prima dalla padella.
A parte, miscelate le uova con il latte caldo aromatizzato con vaniglia, zucchero e ammoniaca. Aggiungetele all’impasto e amalgamate, aggiungendo ancora latte se risulta troppo duro al tatto. Una volta amalgamato, stendete l’impasto in uno spessore di 1 cm e ottenetene forme a piacere. Una vola fatto, mettetele in una teglia e infornatele.
Preparate la glassa, che si ottiene mescolando a fuoco lento 750 g di zucchero a velo più 200 g di cacao in polvere. Aggiungeteci in più momenti 250g d’acqua e la glassa sarà pronta quando il liquido prenderà a filare.
Dopo la cottura, fateli raffreddare e passateli quindi nella glassa di zucchero fondente al cacao. Rigirateli più volte con accuratezza, sgocciolateli e posateli su una carta oleata per farli asciugare.
Una volta asciutti, i mustazzoli saranno pronti per essere serviti in un involucro lucido dal cuore morbido, dolce e profumato.

Cupeta

Cupeta
Foto da Vizionario.it
La cupeta è un dolce tipico del Salento e di altre aree dell’Italia Meridionale. Si tratta di uno speciale torrone, ottenuto con mandorle e zucchero. Il nome italiano con cui è riconosciuto facilmente è quello di “croccante”.
L’origine del nome può derivare da due alternative. Una è romana, dato che i Romani definivano cupeddia una sorta di pasta realizzata con zucchero e mandorle, l’altra è araba, potrebbe derivare infatti da qubbaita, un altro dolce simile.
In entrambi i casi, comunque, si accerta l’origine molto antica di questa specialità, confermati dalla presenza in Salento di documenti scritti che ne parlano già nel XVII secolo. In Italia, invece, arriva probabilmente al tempo delle Crociate attorno al X secolo e la presenza napoletana è testimoniata da un altro documento del Cinquecento.

Un tempo si era soliti darla in forme differenti, ciascuna con un messaggio: ad esempio, il cuore era il simbolo che il ragazzo donava alla ragazza per manifestare il proprio sentimento o anche per mostrare il volere di sposarla, avvolte in apposite carte colorate con l’immagine della ragazza.
Oggi quest’usanza si è persa, ma la potete trovare praticamente in tutte le feste patronali ed in ogni pasticceria salentina specializzata, tanto da essere ormai associata culturalmente alle feste.
Nelle feste patronali viene servita da abili “cupetari” che la preparano sul posto, tagliandone barrette di varie dimensioni a seconda della quantità richiesta. In alternativa, soprattutto nelle pasticcerie, la troverete utilizzata come base che funge da contenitore per altri dolcetti con creme e simili.

Per realizzare la cupeta in casa, prendete una quantità a scelta ma uguale di mandorle e zucchero, dopo aver avuto cura di sbucciare le mandorle, pulirle e tostarle al forno finché non prendono un po’ di colorito.
Sciogliete quindi lo zucchero sul fornello, in un pentolino con poca acqua e girando senza mai fermarvi con un cucchiaio da cucina in modo che si sciolga senza attaccarsi. Quando sarà del tutto sciolto, versate nel pentolino le mandorle e continuate a girare senza sosta per amalgamare il tutto. A questo punto, potete o versare il contenuto in appositi stampini precedentemente rivestiti con carta forno, oppure su un marmo da cucina se ne disponete.
Pestate l’impasto ancora caldo con mezzo limone, per trasferire la sua particolare aroma e per dare la tipica forma appiattita al dolce se lo avete versato su un marmo. Potete anche strofinare il mezzo limone su un grande coltello da cucina liscio e con questo lavorare la cupeta per darle forma fino ad ottenere uno strato spesso un centimetro.
Quando lo zucchero si sarà raffreddato, l’impasto si solidificherà e avrete così fatto la cupeta, che potrete tagliare a pezzettini e servire. Aspetto non da trascurare, si tratta di un dolce a lunga conservazione. L’aspetto sarà tipicamente ambrato, come se antichissime mandorle siano rimaste intrappolate in ambra preistorica: un’apparenza ricca di storia, che nasconde in realtà un prodotto freschissimo e molto, molto dolce. Ragion per cui, fate attenzione quando addentate una cupeta!

Spumone

Foto CC-BY-SA di Florixc da wikipedia
Foto CC-BY-SA di Florixc da wikipedia
Lo spumone è un particolarissimo gelato parte della gastronomia salentina e di altre aree del Sud Italia. Questo perché sembra sia nato a Napoli in tempi relativamente recenti, ai tempi del Regno delle due Sicilie, e solo in un secondo momento si è radicato nel Salento dove ha acquistato tipicità.
È nel Salento che è stato utilizzato moltissimo in occasione delle feste nuziali e delle feste patronali. Il dolce era costoso, diffuso soprattutto tra i ceti più ricchi, mentre il resto della popolazione povera poteva permettersi di consumarlo solo raramente. Fortunatamente, oggi non è più così ed è il gelato tipico della primavera e dell’estate che potete ritrovare nelle gelaterie tradizionali del Salento.

Si presenta con più strati, solitamente due strati di un solo gusto, oppure uno di nocciola ed uno di cioccolato o in alternativa di stracciatella, ed al suo interno si trovano squisiti condimenti come mandorle tritate, caramello, cioccolato fondente, pan di spagna bagnato con liquore tipo Strega. La forma è quella di un cilindro o più spesso di un cono troncato e nonostante i tanti ingredienti rimane comunque un dolce leggero, che si può gustare senza stancare lo stomaco.
Una variante è lo spumone gallipolino, che potete trovare in molte pasticcerie e gelaterie di Gallipoli, fatto con gelato nocciola o cioccolato e con all’interno crema Plombières, pezzetti di cioccolato fondente e mandorle tritate dopo essere state tostate.
Per fare degli spumoni fatti in casa in modo molto semplice, vi indichiamo la ricetta seguente:
Procuratevi del gelato alla nocciola e del gelato al cioccolato fatti artigianalmente, assieme a pan di spagna, liquore Strega, cioccolata fondente e mandorle.
Mettete in uno stampo sufficientemente grande da un lato il gelato alla nocciola e dall’altro quello al cioccolato, realizzando però un ampio spazio concavo dove metterete un impasto fatto di pan di spagna inzuppata a piacere di Strega (oppure non inzuppata se lo preferite analcoolico), scaglie di cioccolata fondente e mandorle (prima tostate e poi tritate). Coprite quindi entrambi i lati con dell’altro gelato al gusto corrispondente finché non avrete una superficie liscia che nasconde il cuore ripieno.
Unite gli stampi e mettete in freezer fino a quando il gelato non sarà diventato solido. Per poterlo staccare dagli stampi quando lo vorrete offrire, passateli sotto acqua calda corrente così che la parte superficiale si sciolga facendo staccare il gelato dagli stampi e servitelo su piatto. Se volete, potete lasciare i due stampi separati, in modo da ottenere due spumoni più piccoli con due gusti differenti.

Il Pasticciotto

Pasticciotto
Foto da Vizionario.it
Il pasticciotto è probabilmente il dolce più rinomato e famoso del leccese, immediatamente riconosciuto come sinonimo di Salento, perché prettamente tipico per nascita. Si tratta di un dolce in pastafrolla cotto al forno e ripieno all’interno di soffice crema pasticcera.
Sebbene un documento parli di “pasticciotto” già nel 1707, la tradizione ne fa risalire la nascita in una data e un luogo ben preciso: siamo a Galatina (LE) nel 1745 e nella pasticceria Ascalone, l’omonimo proprietario in cerca di qualcosa di nuovo per rilanciare la propria attività in crisi tira fuori dal cilindro delle idee questo capolavoro.
La nascita è quasi del tutto casuale come molte delle innovazioni culinarie: essendo avanzato dalle torte un po’ di impasto e di crema, Nicola Ascalone decide di realizzare ugualmente un mini-dolce, come una piccola torta alla crema che definisce subito “pasticcio” perché non gli risultò molto bello esteticamente, ed ecco, in quell’istante prende vita il pasticciotto che appena sfornato viene regalato come piccolo omaggio ad un passante. Costui ne rimane estasiato, tanto da ordinarne molti altri da far assaggiare ai familiari.
Scalone capisce il tesoro che ha appena creato e comincia così l’attività di “produzione in serie” dei pasticciotti, aggiungendo all’esterno della pastafrolla una spennellata di uovo sbattuto che li rende più compatti e lucenti alla vista. Ben presto si sparge la voce in tutto il Salento, che richiede i rinomati “pasticciotti de lu Scalone”.
La ricetta dapprima esclusiva si è tramandata immutata per trecento anni e nel tempo si è diffusa in tutte le pasticcerie del Salento: se troverete una sola pasticceria senza pasticciotti, allora non siete nel Salento oppure non siete in una vera pasticceria! La stessa pasticceria originaria esiste ancora oggi.

Così la bontà del pasticciotto è giunta immutata fino a noi e fa parte dell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali del Ministero delle politiche agricole ambientali e forestali. Come il primo passante che ne gustò il sapore, essi vanno mangiati esclusivamente caldo per poter esprimere al meglio tutte le caratteristiche del gusto e del profumo. Ma, se li portate lontano, anche freddi si conservano bene per 1-2 giorni.
Altra particolarità dei pasticciotti è che sono realizzati esclusivamente in pasticceria in loco con metodi tradizionali e genuini. Non ne troverete mai confezionati al supermercato, perché non sarebbero dei veri pasticciotti.
Mantengono invece la loro caratteristica di essere sempre e solo prodotti con ingredienti freschi….serviti caldi! I salentini li usano mangiare in due occasioni della giornata in particolare: o durante la colazione mattutina, al posto di biscotti o croissant, oppure la sera, come dolce caldo che chiude la giornata.

Oltre alle normali pasticcerie sono molti, infatti, i forni aperti fino a tarda ora (anche le due o le tre di notte) che li vendono agli avventori notturni.
Sono molte le varianti del pasticciotto che nel tempo si sono venute a creare, per forma e per sapori. Esistono pasticciotti mignon venduti in forme ancor più piccole, come veri e propri dolcetti, così come versioni molto più grandi, le cosiddette “torte pasticciotto”, da tagliare in fette e gustare come le più classiche delle torte.
Mentre le due varianti più conosciute sono il fruttone, che vede la superficie superiore ricoperta di cioccolato fondente ed un interno ripieno non di crema bensì di mandorle e marmellata, e per ultimo il “pasticciotto Obama” realizzato in tempi recentissimi da una pasticceria di Campi Salentina come benvenuto per il primo presidente nero d’America e già diventato un cult: vede un ripieno di crema al cioccolato e al posto della normale pastafrolla un involucro fatto di pastafrolla al cacao, così che esteriormente risultano essere scuri.

Se volete provare a realizzare i pasticciotti direttamente in casa vostra, vi proponiamo la ricetta seguente per dieci pasticciotti.
Per la pastafrolla, preparate su un tavolo da cucina 400 g di farina con forma a fontana e mettete al centro strutto (rigorosamente strutto, non burro né margarina), 200 g di zucchero, 4 tuorli d’uovo, un pizzico di sale e una bustina di lievito per dolci. Impastate il tutto finché non otterrete un impasto omogeneo, formate così una massa sferica da lasciare in frigorifero per un paio d’ore.
Per la crema pasticcera, scaldate 300 ml di latte in un pentolino assieme alla scorza grattugiata di un limone e spegnetelo quando va in ebollizione. In un pentolino a parte mettete due altri tuorli d’uovo e 4 cucchiai di zucchero, mescolando bene. Versateci quindi il latte e 50 g di farina e mescolate. Mettete di nuovo il pentolino sul fornello a fiamma minima, finché non vedrete addensarsi il tutto.
Dopo le due ore, riprendete l’impasto dal frigorifero e stendetelo su un piano, ritagliando 20 cerchi. Deponete dieci di questi in appositi stampi precedentemente imburrati facendoli aderire bene per ottenere la forma migliore della pastafrolla e versate all’interno di ciascuno la crema del pentolino. Richiudete quindi i pasticciotti con gli altri dieci cerchi avendo cura di farli combaciare e serrandoli molto bene tra di loro, per evitare il rischio che nel forno fuoriesca la crema. Infornate il tutto per un quarto d’ora a duecento gradi.
Passato questo tempo, potrete estrarli, farli raffreddare un po’ (ma non troppo) e gustateli ancora caldi!

Caffè con ghiaccio e Latte di Mandorla

Caffè in Ghiaccio
Foto da Vizionario.it
Dopo i primi, i secondi e i dolci…la cosa migliore da buoni italiani è concludere il pranzo con un ottimo caffè. Per questo, a conclusione di questa guida gastronomica salentina vi vogliamo proporre due preparazioni del caffè che arrivano direttamente dal Salento: il caffè in ghiaccio e la variante del caffè in ghiaccio con latte di mandorla.
La storia del caffè in ghiaccio nel Salento sembra provenire dalla Spagna, da dove attecchì in Terra d’Otranto nei primi decenni del XVII secolo con il nome di “Café del tiempo”, originario di Valencia. Nella città spagnola, infatti, anche ai giorni nostri il caffè viene servito in ghiaccio con una fetta di limone. Documenti dimostrano che nell’Ottocento ad Otranto il caffè veniva preparato con pezzetti di ghiaccio o neve ghiacciata e una fetta di limone verde. In seguito, si è perso il nome valenciano e con esso la fetta di limone, così come ovviamente non si usa più neve ghiacciata, ma solo grandi cubetti di ghiaccio.
Il caffè in ghiaccio sa essere servito alla perfezione solo nel Salento. I bar lontani dal Salento, infatti, spesso non sanno bene ciò che si sta cercando quando si chiede un “caffè in ghiaccio”. Il risultato è un errore molto comune: versare il caffè direttamente sul ghiaccio per poi aggiungere lo zucchero, il quale data la presenza del ghiaccio non riesce a sciogliersi rimanendo sul fondo.
La preparazione corretta, che potete fare anche a casa, è invece la seguente.
Fate un normale caffè espresso (se proprio non avete la macchinetta, usate la moka) e versatelo caldo in una tazzina, dove va quindi zuccherato a piacere e mescolato fino a scioglimento dello zucchero. Versate quindi il caffè zuccherato in un bicchiere di vetro dove avrete messo grossi cubetti di ghiaccio secco, appena estratto dal freezer, in modo che il ghiaccio non si sciolga subito e il caffè non si annacqui. Noterete come il caffè si fredda subito, ma senza perdere consistenza né sapore, consumatelo subito prima che il ghiaccio cominci a sciogliersi.
Non bisogna confondere il caffè in ghiaccio con quello shakerato, che vede il caffè agitato in un miscelatore assieme ai cubetti.
Un’importante variante tutta salentina di questo caffè, è il caffè in ghiaccio con latte di mandorla, nato a Lecce solo negli Anni Cinquanta. In questo caso, per rendere dolce il caffè si utilizza al posto dello zucchero il latte di mandorla.
Per prepararlo, fate un caffè espresso e senza mettere zucchero potete versarlo stavolta direttamente nel bicchiere pieno di ghiaccio secco. In seguito, aggiungete alcuni cucchiai di latte di mandorla a piacere (a seconda di quanto preferite il gusto del caffè o quello del latte di mandorla), solitamente ne bastano un paio. Agitate il composto con un cucchiaino ed ecco pronto uno squisito caffè in ghiaccio con latte di mandorla! Anche in questo caso, non tardate troppo a berlo per evitare che il ghiaccio si sciolga troppo. Evitate anche di utilizzare orzata al posto del latte di mandorla: il gusto che ne otterrete sarebbe decisamente diverso e lontano dall’originale.

I Vini del Salento

Vini del SalentoIl Salento, come è risaputo, è da millenni terra di produzione di ottimi vini, grazie alla presenza di un clima mediterraneo ideale che consente a molti vitigni di attecchire e rendere. L’enorme esperienza dei viticoltori che si tramanda da generazioni e generazioni fa il resto, così che da questa terra possiamo gustare numerosi vini squisiti, corposi, dalle proprietà salutari, molti di essi dotati dei marchi di qualità DOC, DOCG e IGT.
Tra i vini più famosi rientra senza dubbio il Primitivo. Il vino più famoso in questa varietà è senza dubbio il DOC Primitivo di Manduria, cittadina equidistante dalle tre città di Lecce, Brindisi e Taranto, ma comunque salentina. Viene realizzato con uve dell’omonimo vitigno e deve il nome sicuramente all’aspetto che vede queste uve maturare precocemente rispetto alla norma, verso gli ultimi giorni di agosto. L’origine è incerta e potrebbe anche essere antichissima, portato dai Fenici o dagli Illiri. In ogni caso si è certi della sua presenza nel Salento dal XVII secolo per poi diffondersi soprattutto nel tarantino. Dopo la produzione, questo vino è sottoposto ad invecchiamento in botti al buio, in cantine fresche e umide.
Il gusto del Primitivo è massiccio, tendente al dolce, ma molto deciso. Non a caso, la gradazione minima di questo vino è di 13° e nella versione liquorosa si spinge fino a 18°. Molto intenso anche il profumo, con note fruttate e speziate. Viene prodotto anche oltre l’area DOC e si contano diverse varianti: il rosso, il dolce naturale, il liquoroso e il liquoroso dolce. Il rosso è perfetto per i piatti a base di carni rosse, pasta con sugo di carne, formaggi stagionati. Il dolce si accompagna bene con dolcetti alle mandorle mentre i liquorosi sono adatti in abbinamento a dolci da forno e vanno serviti freschi.
Altro vino rinomato del Salento è il Negroamaro, portato ancor più alla ribalta dal quasi-omonimo gruppo musicale dei Negramaro, è prodotto con uve dell’omonimo vitigno. L’origine del nome si suddivide tra chi considera il termine “amaro” così com’è, quindi stante a indicare il gusto, ed altri che sostengono invece la derivazione greca di “mavro” che significa anch’esso nero, indicando quindi un rafforzamento tra greco e latino della parola “nero”, esaltando quindi la peculiarità del colore scuro. Rispetto al Primitivo è un vino decisamente più giovane, tanto che i primi documenti che parlano di questo vitigno risalgono soltanto alla seconda metà dell’Ottocento, mentre in precedenza assumeva tanti nomi locali differenti anche all’interno dello stesso Salento.
Si fa molto apprezzare per il suo profumo che sa di terra salentina e per il gusto pieno e massiccio che lo ha reso celebre anche ben oltre i confini nazionali. Anche la bontà di questo vino in purezza è relativamente recente, diffondendosi solo dalla seconda metà del Novecento, mentre in precedenza era usato solo come vino da taglio per altri vini del Nord Italia. Fortunatamente, i produttori locali si sono resi conto dell’elevata qualità di queste uve cominciando così a realizzarlo e venderlo puro e forte così come oggi viene riconosciuto (il livello alcoolico è di 13 gradi), meritandosi un posto al sole più di tanti altri vini settentrionali. Viene sottoposto a leggero invecchiamento di 6-12 mesi. Al sapore si presenta con un retrogusto amarognolo, asciutto e vellutato mentre lo si beve. Il colore è rosso scuro, quasi nero se visto compatto in bottiglia. Si serve a temperatura ambiente ed è perfetto per ogni genere di pasto, specialmente con i primi di pastasciutta ed i secondi di carne.
Un altro vino molto diffuso nel Salento, ma anche in tutta la Regione, è l’Aleatico di Puglia DOC. Si tratta di un vino dolce, prodotto in tutte le province pugliesi. Dal gusto pieno e dolce, all’olfatto è profumato e delicato, mentre il colore è granata con riflessi viola. Se sottoposto ad invecchiamento di tre anni diventa ancora più buono, affiancando al colore originale dei riflessi arancioni. Viene prodotto sia nella variante Dolce Naturale a 15 gradi alcoolici che nella versione liquorosa a 18,5 gradi alcoolici.
La sua storia è molto antica e fonti documentate riconoscono il vitigno Aleatico in Puglia fin dal Trecento. L’origine è incerta, forse proveniente dalla Grecia oppure dalle campagne toscane. Questo vino è ideale per il dessert e si accompagna alla perfezione con dolci secchi, come quelli con pasta di mandorle tipici del Salento.
Altro vitigno che ha fatto e fa la Storia vinicola salentina è il Malvasia, di origine sicuramente greca, dalla città di Monemvasia, presenta varietà di uve sia bianche che rosse. A portarlo in Italia furono però le repubbliche marinare di Venezia e Genova, per poi diffondersi lungo tutto il versante adriatico dello Stivale.
Ecco perché, pur essendo un vino rinomato anche nel Salento, la sua identità culturale è maggiormente estesa a tutta l’area mediterranea, non soltanto salentina e nemmeno solo italiana, essendo tipico anche delle aree mediterranee di Spagna e Portogallo.
Vi è però una variante tipica del territorio di Brindisi e Lecce, vale a dire la Malvasia Nera, da cui si producono ottimi vini ed in genere viene anche utilizzata come componente nei vini Negroamaro. I vini Malvasia sono corposi, liquorosi, dolci e dal profumo molto intenso. Relativamente alle uve di Malvasia Nera di Brindisi e Lecce, il colore del vino è rosso rubino. Va servito a temperatura ambiente assieme a carni rosse, arrosti, formaggi stagionati.

Altri vitigni tipici dell’area salentina sono l’Ottavianello, introdotto a San Vito dei Normanni dal Marchese di Bugnano da Ottaviano, da cui si ottiene un vino rosso rubino aromatizzato utilizzato con il Negroamaro, oltre che vitigni di respiro nazionale, come l’Aleatico, il Sangiovese ed il Montepulciano: tutti molto diffusi nel Salento, ma caratterizzanti in realtà di tutto il territorio italiano.

Conclusioni

Ci auguriamo che questa guida possa aiutarvi a comprendere più a fondo la realtà enogastronomica e culturale tipica del Salento, facendovi scoprire piatti squisiti mai gustati prima o riscoprire qualcosa che già avevate assaggiato, ma di cui poco conoscevate a livello storico e di curiosità generali.
L’invito, date le numerose ricette proposte per ciascuna produzione tipica, è anche di provare a realizzare alcuni di questi piccoli capolavori, per portare ogni giorno a tavola un po’ di Salento.

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