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Tradizioni e credenze

Il Natale senza tradizioni e credenze si ridurrebbe a un’occasione commerciale qualsiasi. Sono infatti le memorie, le atmosfere e le suggestioni tramandate di generazione in generazione a distinguerlo da altre ricorrenze. E a distinguere il Natale pugliese da quello di altre regioni. In alcuni centri della Puglia, le prime note del Natale, ha raccontato Saverio La Sorsa, studioso di storia e folklore pugliese nel 1930 (nel libro «Usi, costumi e feste del popolo pugliese» riportato alla luce dalla ricercatrice Teresa Maria Rauzino), si avvertivano fin dal 6 dicembre, alla festa di San Nicola. Nelle varie chiese l'organo suonava per la prima volta «la pastorella» o la «ninna nanna». A Ruvo, e in altri paesi in provincia di Bari, nella cattedrale si accedevano dodici lampade: dal giorno di S. Lucia se ne spegneva una al giorno, l'ultima alla nascita di Gesù Bambino. La tradizionale attesa della festa è stata immortalata anche da un’altra opera, del 1938, ricordata da Teresa Maria Rauzino, «Folklore garganico» di Giovanni Tancredi, uno dei più importanti scrittori del Gargano: nei primi giorni di dicembre nei più piccoli centri garganici, l’avvenimento più importante era l’arrivo dei pifferai con la zampogna e la ciaramella dall’Abruzzo e dalla Basilicata, a piccoli gruppi, avvolti nei loro tipici e inseparabili mantelli a ruota. Accordavano nenie caratteristiche in onore della Madonna e di Gesù. E dopo la suonata, si toglievano il cappello per salutare il capofamiglia, dando appuntamento all’anno successivo. Altrove, invece, dieci giorni prima di Natale, piccoli gruppi di suonatori, con chitarre e mandolini, con due o tre cantori, andavano di casa in casa intonando la filastrocca della «Santa allegrezza» che narrava la vita e la passione di Gesù.

Il presepe era una tradizione per ricchi e poveri, che lo allestivano ognuno secondo le proprie possibilità. Tutti, però, erano addobbati con frutta rigogliosa, destinata ad accogliere l’arrivo del Bambinello.
Gli alberi di Natale, invece, a quei tempi, si trovavano solo nelle case dei signori. Erano ornati con arance, mandarini e altri doni e dolci. Dopo la benedizione del capofamiglia, erano distribuiti ai bambini. Poi si cantava, suonava e ballava, e i padroni offrivano dolci ai convenuti.

 Tante le tradizioni al limite della superstizione raccontate da La Sorsa. Nei paesi delle Murgie, le donne impastavano le pettole solo dalla mezzanotte all'alba della Vigilia, infrangere la regola si temeva potesse portare disgrazie. E prima di friggere l’ultima pasta, era di buon auspicio recitare una preghiera. Il 24 di dicembre, invece, era tradizione (per molti lo è ancora) digiunare a mezzogiorno, salvo qualche strappo alla regola con pettole ripiene di alici o di ricotta forte. Ma si recuperava al cenone serale, con la famiglia al completo. E dopo cena si lasciava la tavola imbandita, per le anime dei parenti morti, che così avrebbero potuto partecipare, per quella notte, alla felicità domestica. Puntualmente, però, facevano le loro veci orfani e persone povere o sole, ospitati a tavola con un senso di solidarietà oggi non facile da trovare. Contadini e pastori, terminate le pratiche religiose, andavano in campagna a trarre gli auspici per la loro attività. Si sperava che il giorno di Natale potesse benedire l’annata come il Bambinello la loro vita.

 DOLCI TRADIZIONI
Il Natale si sente fin dal mattino nelle case dove le buone tradizioni pugliesi sono ancora vive o almeno nei ricordi di chi ha qualche primavera in più. È dalle prime ore del giorno, infatti, che mamme e nonne invadono (o invadevano) ritualmente la casa e le narici di chi si attarda a letto con profumi genuini, ereditati dalla tradizione contadina. Ad esempio, quelli dell'uva bollita o dei fichi cotti a fuoco lento, ingredienti base per preparare il vin cotto, quintessenza di molti dolci natalizi pugliesi. 
Il suo gusto vellutato serve, ad esempio, a ricoprire un simbolo della gastronomia regionale, le cartellate. Ogni famiglia è depositaria di una ricetta, ma in genere tutte le cartellate hanno una forma che, per la tradizione, richiama l’aureola o le lenzuola di Gesù bambino. Hanno un impasto semidolce: la dolcezza vera è garantita da vin cotto, miele o zucchero a velo. Altro ingrediente immancabile, nel Barese, sono le mandorle, usate per fare il torrone ma anche per altri dolci, ad esempio, come ripieno dei panzerottini fritti o come impasto per dolci al forno: castagnelle, pagnottelle e sassanelli. 

La rivalità tra Bari e Lecce non è certo sulle mandorle. Anche nel capoluogo salentino sono ingrediente principe in un dolce che risale al 1680, creato dalla badessa del monastero benedettino locale: a Natale è un pesce, a Pasqua un agnello. Ma la pasta è sempre di mandorle e il ripieno di crema, canditi e marmellata. Con olio d’oliva, vino, agrumi e miele si fanno due altre tipicità, purciddhruzzi e chinuliddhre, che in più sono ripieni di marmellata. 

Se nel Nord Barese fanno più gola le sfogliatelle (arrotolate con cioccolata, marmellata e frutta secca sminuzzata), nel Foggiano un posto d’onore è riservato alla pizza a 7 sfoglie (con mandorle, marmellata d’uva, uva passa, cioccolato, canditi, cannella, olio d’oliva): era realizzato alla festa di tutti i Santi ma, grazie alla sua propensione alla conservazione, durava fino a Natale, ed era consumata con altri dolci natalizi, come i mostaccioli, dolci del battesimo di Gesù. 
Giuseppe Daponte

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