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L'Orso d'oro dopo 21 anni torna in Italia. Premiata la regia di Paolo e Vittorio Taviani





da MyMovies
Era dal 1991 che un regista italiano non si vedeva assegnare l'Orso d'Oro al Festival di Berlino. Allora si trattava di un grande vecchio come Marco Ferreri con La casa del sorriso. In questa edizione di 21 anni dopo a salire i gradini del palco del Palast della Berlinale sono ancora due grandi vecchi del nostro cinema: Paolo e Vittorio Taviani. È una vittoria meritata che onora il nostro cinema ma che ci deve anche far riflettere. I Taviani tornano a far trionfare l'Italia a un festival prestigioso grazie al coraggio della sperimentazione, grazie al non essersi adagiati su comode scelte che avrebbero potuto tranquillamente compiere e che invece hanno messo da parte per andare a cercare la verità con il cinema all'interno di un luogo di pena. Uno spazio che la facile banalizzazione vuole lontano dalla cultura e che invece trova nel loro sguardo un felicissimo connubio tra Shakespeare e degli esseri umani che stanno pagando per i reati commessi. Uomini che, proprio quando dicono le parole pensate secoli fa e trasposte nel dialetto di ognuno, diventano profondamente 'veri'.
Il cinema italiano dovrebbe apprendere una lezione da questo voto unanime di una giuria che era composta non da intellettuali interessati solo ai film 'da festival' ma da registi, attori, attrici capaci di fare cinema con stili diversi che si sono tradotti in opere che spesso sono arrivate al grande pubblico senza rinunciare però al piacere di cercare nuove strade. Sono quelle che la giuria ha premiato anche con gli altri film piegandosi solo in un'occasione alle regole dell'opportunità. Sgombriamo subito il campo dicendo che il premio per la miglior regia andato a Christian Petzold per Barbara non convince se non nell'ottica di un riconoscimento 'obbligato' al film tedesco che più era piaciuto alla stampa locale, forse più per motivi politico/emozionali che non per qualità intrinseche. Detto ciò il Gran Premio della Giuria andato all'ungherese Just the Wind prende in considerazione un'opera tesa ed efficace nel descrivere la cappa di paura che opprime una famiglia romena in terra magiara. L'obiettivo è stato centrato come per i premi al miglior attore e attrice consegnati a una giovanissima e intensissima ragazza congolese, Rachel Mwanza, presa, come si diceva ai tempi del Neorealismo, 'dalla strada' e al giovane protagonista, Mikkel Følsgaard, nei panni dello psichicamente disturbato re Christian di Danimarca di En Kongelige Affair, film che ha meritatamente ricevuto anche il premio per la miglior sceneggiatura. Vanno citati anche la fotografia del chilometrico film cinese White Deer Plain così come l'originale e ricercato Tabu del portoghese Miguel Gomes.
Scegliere le giurie è un compito delicato come quello di selezionare i film. Va dato quindi pieno riconoscimento al direttore della Berlinale per questo gruppo di uomini e donne che hanno mostrato di saper amare, fuor di retorica, la settima arte dando anche una menzione a L'enfant d'en haut di Ursula Meier, opera imperfetta ma ricca di sensibilità. Un'ultima, ma importante annotazione: il film che si è piazzato secondo nell'apprezzamento del pubblico nella Sezione Panorama per quanto riguarda le opere di finzione è stato Diaz - Non pulire questo sangue di Daniele Vicari. Con la forza di un cinema di denuncia che tiene conto della lezione dei Maestri, Vicari ha raccolto il favore di un pubblico non italiano. Anche questo ci dovrebbe far meditare.

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