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Come Dio comanda

di Gabriele Salvatores con Elio Germano, Filippo Timi, Fabio De Luigi, Angelica Leo, Vasco Mirandola, Ludovica Di Rocco, Alvaro Caleca, Alessandro Bressanello. Genere Drammatico produzione Italia, 2008 Durata 103 minuti circa.

Di solito scrivo di mio pugno le recensioni dei film che vedo al cinema o riporto quelle che condivido. Stavolta, chiedo scusa per lo sfogo (forse poco legato al cinema), riporto la recensione più irritante, pubblicata sul Giornale del dittatore mediatico che governa direttamente e indirettamente l'Italia da 15 anni. Tra gli obiettivi del nuovo regime italiano, c'è quello di stravolgere il confine tra chi ha riportato la democrazia in questo Paese, gli antifascisti (la verità è questa, caro Pansa, poi si può anche divertire a cercare le isole di crudeltà nell'antifascismo... ma sa com'è, si era in guerra - per Sua volontà - e si erano abbruttiti un po' tutti grazie al manganello e all'olio di ricino), e chi l'ha uccisa, i fascisti. 50 anni di Repubblica non sono serviti a portare tutti gli italiani dalla parte della democrazia. Al contrario, il 72% - sembra dai sondaggi del padrone - è ancora refrattario alle regole democratiche. Grazie anche ad una sistematica operazione piduistica dell'oblio.


Per questo forse, per il (re)censore Cabona, i buoni sono Pio XII (colpevole secondo lo stesso Fini del silenzio sulle leggi razziali), Andreotti (non condannato per associazione mafiosa solo per la lentezza della Giustizia quando deve condannare i potenti) e giù giù fino all'ultimo nazifascista virtuale, il padre del film. A questi, Cabona riconosce dignità piena, perdonandogli violenza e aggressività, razzismo, alcolismo, e "che - impudenza! -" le svariate svastiche tatuate o stampate in camera da letto.


Salvatores e Ammaniti volevano rendere tridimensionale la personalità del padre, suscitare la pietas dello spettatore, mostrare come nella sua miseria sia sbocciato un fiore, l'amore (destinato a diventare però un abbraccio mortale), e si annidino positività (la difesa di un debole, Quattroformaggi, il coraggio, la voglia di lavorare frustata ecc.). Poi però indugiano troppo, come se lo spettatore dovesse chiudere più di un occhio sul personaggio e preferirlo all'assistente sociale, non a caso reso in modo macchiettistico e insopportabile da De Luigi (definito "diessino" dallo schierato Cabona, sic). Questa semplificazione romanzata rovina un film nel complesso valido quanto angosciante, e rischia di spingere lo spettatore più sprovveduto a redimere totalmente il padre (considerato da suo figlio il "Dio che comanda") e a condannare lo Stato sociale "diessino" (e non magari solo alcuni suoi interpreti). Questa è la trappola della storia. Su questa (volutamente o distrattamente?) è caduto a piè pari Cabona ("dritto dritto nell'acqua lorda", si dice dalle mie parti) , mettendo sul tavolo anche il kit del buon pidiellino.

"Il padre di famiglia è il grande assente dagli schermi italiani da mezzo secolo, cioè da quando morì Pio XII, che teneva - insieme a Giulio Andreotti - a questa figura essenziale....". vai all'articolo completo
Da Il Giornale, Maurizio Cabona, 12 dicembre 2008

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