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INTO THE WILD


La mia impressione? questo film non raggiunge l'eccellenza che molti le hanno accreditato. Gli ingredienti per un buon film c'erano tutti. Sean Penn aveva sotto mano le corde giuste. Ma ritengo non le abbia suonate al meglio, limitandosi a proporci solo numerosi spunti interessanti: il rifiuto di una vita preconfezionata da un sistema sociale invasivo, dalla sua tecnologia che irretisce dando l'illusione di liberare; il richiamo ad una riscoperta della Natura, ad un rapporto più equilibrato con essa; la smania di poter fare ed essere da soli, forma di individualismo estremo, reazione al "sistema borghese" dei padri che però si rivela, alla fine della giostra, un equivoco, un arredo del mondo dal quale si è fuggiti.

In particolare, è l'acquisizione, tardiva purtroppo per "Supertramp", della consapevolezza di non bastare a se stesso (per di più in una Natura non tanto benevola) a dare finalmente un qualche spessore a questo suo e nostro viaggio. Un punto di arrivo quasi inaspettato per gli spettatori, indotti - dalla retorica, da certa leziosità nelle inquadrature e dall'appiattimento del racconto sulla visione del protagonista - ad aspettarsi, in prossimità dei titoli di coda, piuttosto un messaggio neosuperomistico.
Un messaggio che il film non avrebbe potuto dare senza snaturare il legame con la storia vera a cui si ispira: quella del 23enne Chris McCandless, partito, subito dopo la sua laurea, per l’Alaska nel 1990. Nelle ultime pagine del suo diario di viaggio, infatti, Chris annota: “la felicità per essere tale dev’essere condivisa”. Ha sperimentato in prima persona come, per tenere testa alla Natura selvaggia, gli strumenti a disposizione del singolo siano irrisori. Sarebbe servita la cultura (botanica) dei padri che mancava al Chris del film per far superare a quest’ultimo ostacoli altrimenti per lui insormontabili. Lo stesso discorso vale per il vero Chris, sulla cui sorte, più triste, forse è meglio sorvolare.

Questo è il ritaglio della recensione che ho trovato più condivisibile e meno "rapita" dalla pellicola.
"Quarto film da regista di Sean Penn, Into the Wild è stato uno degli eventi dell'ultima Festa di Roma, dove in diversi hanno gridato al capolavoro. Sarà bene dire subito che non lo è, ma sarà anche giusto ammettere che è uno di quei film che possono far innamorare. Perché è tenerissimo il protagonista - il giovane Christopher, che molla il benessere e la famiglia borghese per sfidare le «terre selvagge» -, perché sono abbaglianti i paesaggi naturali nei quali si svolge la storia, e perché tutti i riferimenti culturali che Penn dissemina nel film sono quelli giusti, quelli dell'America «che ci piace». Partiamo proprio dal Wild- è un aggettivo («selvaggio», appunto) che nella cultura americana sa farsi sostantivo, e che sostantivo! Si chiama Call of the Wild, in originale, Il richiamo della foresta di Jack London, uno dei libri che Chris legge durante la sua avventura, nonché uno dei testi formativi dell'identità americana più profonda.

Ma strada facendo si parla anche di Thoreau e del suo Walden o la vita nei boschi, di Tolstoj e del suo ritiro fra i contadini a Jasnaja Poljana, della cultura hippy che ancora sopravvive negli angoli più sperduti della California; e si allude, magari indirettamente, a On the Road di Kerouac, a tanto cinema (da Ford a Terrence Malick), mentre in colonna sonora Eddie Vedder, il cantante dei Pearl Jam, ammicca alla grande tradizione del folk e della psichedelia anni '60.


Insomma, Into the Wild sembra veramente il pantheon di Sean Penn; ed è un vero peccato che il film sia riuscito, a esser generosi, al 60%. A causa di un eccesso di poesia «programmatica», molto cercata e poco trovata, e di un finale troppo ambizioso in cui la ribellione di Chris si ripiega su se stessa. Anche la struttura stessa del film - che Penn ha scritto da solo, ispirandosi al libro di Jon Krakauer Nelle terre selvagge - è assai ambiziosa, e non poco lambiccata. [...]

La regia va a caccia di dettagli, si dilunga in digressioni e squarci naturalistici che qua e là sfiorano il sublime, ma più spesso rimangono bellissime fotografie con poca anima. Il risultato è un film di 148 minuti, visivamente bellissimo ma narrativamente zoppicante. La prova del protagonista, Emile Hirsch, è eroica: ma è più sport estremo che cinema".
Alberto Crespi da L'Unità, 25 gennaio 2008

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